Ferrari: per tornare a vincere serve cambiare la mentalità, non gli uomini

Sono ormai quindici anni che la Scuderia Ferrari non vince il campionato del mondo piloti, e quattordici che si tiene alla larga da quello costruttori. Un digiuno lunghissimo, il secondo più lungo nella storia del Cavallino, caratterizzato da un lasso di tempo minore solo a quello che si frappose tra il mondiale di Jody Scheckterdel 1979 e quello targato Michael Schumacherdel 2000 e che, ad oggi, non vede fine all'orizzonte. Un digiuno che, anno dopo anno, si allunga per i motivi più disparati e che accompagna, tra vane illusioni e cocenti delusioni, il team e i suoi tifosi.

Dall'ultimo centro iridato della Rossa, di fatto, è cambiato il mondo, sono cambiate le generazioni e, probabilmente, è cambiata anche l'intera Formula Uno. Ma a cambiare sono stati anche i problemi, presunti, che hanno impedito alla Ferrari di ottenere un campionato: cambiamenti tecnici mal interpretati, progetti "sbagliati", mancanza cronica di downforce, errori dei piloti, noie affidabilistiche, incapacità nel mettere le gomme in temperatura e via discorrendo.

Oltre alle cause tecniche degli insuccessi, a cambiare è stata anche la stessa Ferrari che, dal 2007 ad oggi, ha vissuto al proprio interno un cambiamento praticamente totale e incessante delle figure di riferimento: dalla presidenza fino alla figura del team principal (Jean Todt nel 2007, poi Stefano Domenicali, seguito dalla parentsi di Mattiacci, per passare ad Arrivabene fino all'attuale gestione Binotto). Cambiamenti che mai, almeno sino ad oggi, sono stati in grado di fornire alla Scuderia l'impulso necessario per tornare ad occupare il posto che le spetta nella serie regina ma che, troppe volte sono stati originati e, a loro volta, sono sfociati in lotte di potere interne.

Insomma, basta guardarsi intorno per capire che, da anni, dalle parti di Maranello qualcosa non stia funzionando nella gestione della squadra. Troppo facile, però, sarebbe ricondurre solamente a ragioni tecniche le cause dei fallimenti, poiché tanti, troppi sono stati i direttori tecnici e i vari ingegneri che hanno prestato servizio in GeS da crederli tutti non in grado di venire a capo di problemi noti e che, ciclicamente, tornano a palesarsi. In virtù di quanto appena detto, allora, risulta inevitabile riflettere su questa situazione ed arrivare a pensare che le cause del lungo digiuno ferrarista non siano di natura meramente tecnica, ma siano da ricercare nella mentalità che vige all'interno del team. Una mentalità forse troppo italiana e, forse, e troppo di stampo calcistico.

Ovviamente queste considerazioni non sono casuali, ma prendono le mosse dalle recenti voci relative ad un cambiamento al vertice della squadra, con la defenestrazione (pirma data per certa poi smentita) di Mattia Binotto dal ruolo di team principal e la sua, ipotetica, sostituzione con Frederic Vasseur, attuale capo del team Alfa Romeo Racing. Voci che, come sempre accade quando i risultati della Rossa non sono all'altezza delle aspettative, come in questo finale di stagione, o creano malcontenti interni (come i malumori mostrati recentemente da Charles Leclerc), emergono con prepotenza e che, molte volte, si rivelano fondate. Per rendere l'idea, basti pensare che dal 2008 ad oggi, a Maranello possono vantare il record, verrebbe da dire negativo, di aver sostituito ben 5 team principal in 14 anni.

Voci che, come detto, periodicamente emergono e che portano a riflettere, almeno chi di Formula Uno è appassionato e magari competente, sul modus operandi della Rossa. Un modus operandi che, oggettivamente, appare distinto e distante da quello che caratterizza  la quasi totalità delle altre scuderie del circus iridato. In Via Abetone infatti sembra vigere la politica della "Ferrari di...", quella secondo cui chi siede nella stanza dei bottoni è l'unico responsabile della mancanza di risultati, quella della continua ricerca di un colpevole a cui ascrivere le colpe degli "zero tituli", quella secondo cui basta cambiare il capo di turno per ribaltare una situazione negativa. Quella, soprattutto, del vincere tutto e vincere subito, senza dare il tempo utile per fare emergere delle idee vincenti, per costruire una squadra solida e ben consolidata e per mettere i tecnici nella condizione di poter lavorare senza una costante "ansia da prestazione", seduti su sedie a dir poco roventi (tecnici che, la realtà dimostra, lasciati lavorare in serenità hanno fatto le fortune dei competitor). In sostanza, una mentalità fortemente italiana e di stampo fortemente calcistico, secondo cui l'allenatore (il team principal nel caso specifico) è l'unico responsabile, nella buona e nella cattiva sorte, la cui sostituzione rappresenta la panacea di tutti i mali.

Una ricetta che, palesemente, differisce da quella degli altri team, ma anche da quella praticata nelle sue epoche vittoriose dalla stessa casa di Maranello. Mercedes e Red Bull, nei fatti, mantengono lo stesso management e lo stesso staff tecnico da anni (oltre che una chiara linea di comando), non ricorrendo mai a rivoluzioni ma, semmai, a pantellamenti mirati a colmare delle precise lacune. Una ricetta mirata a fare squadra, visto che da quelle parti mai si sente parlare della "squadra di..." e, soprattutto, a dare stabilità al team. E proprio la stabilità, malgrado non tutti lo comprendano, è una delle chiavi del successo in F1, poiché fondamentale nel dare agli uomini il tempo necessario per mettere in pratica le loro idee e raccoglierne i frutti, senza che, nel frattempo, avvengano cambiamenti radicali, rivolzioni utili solamente a vanificare quanto fatto in precedenza e richiedere ulteriore tempo per costruire nuovamente da zero e tornare al vertice.

Certamente chi scrive non ha la presunzione di stabilire quale mentalità, quale approccio tra i due appena esposti, sia corretto e quale no..."ai posteri l'ardua sentenza". Nulla però impedisce di farsi un idea della situazione e, per farlo, basta guardare l'albo d'oro della F1 dal 2010 ad oggi. Ciò che emerge è chuarissimo: a riuscire nell'impresa di vincere dei campionati sono stati solamente Mercedes e Red Bull. Ed è proprio sul team "bibitaro" che, credo, sia opportuno soffermarsi. Dopo la golden age dei mondiali a raffica targati Sebastian Vettel (2010-2013), il mondiale è tornato a Milton Keynes solamente nel 2021, quello piloti con Max Verstappen, e nel 2022 quello costruttori. Un periodo lungo in cui, a differenza di ciò che sarebbe accaduto in Emilia, nessuno ha toccato, e neppure messo in discussione, i vertici del team, da Christian Horner ad Helmut Marko, passando per Adrian Newey che, al contrario, sono stati lasciati liberi di lavorare in un ottica di fiducia e di stabilità del team e capaci di tornare al successo. Una filosofia opposta, diametralmente opposta, a quella della Ferrari, premiata però dai risultati visto che nelle ultime dodici stagioni, Red Bull ha vinto un totale di 11 campionati, contro gli zero del Cavallino.

Per chiudere dunque, soprattutto in virtù delle considerazioni svolte, emerge la costatazione secondo cui Ferrari tornerà a vincere un titolo mondiale non quando verranno ingaggiati i piloti, gli ingegneri e i manager migliori (che, sia chiaro, sono sempre graditi), ma quando, nei piani alti dell'azienda, si comprenderà che la Formula Uno non è il calcio, che la decisione necessaria per rialzarsi da periodi negativi non è quella di "tagliare teste", di deporre il team principal di turno, come avverrebbe con un qualsiasi allenatore. La Scuderia tornerà a conquistare un mondiale quando si comprenderà che per vincere serve stabilità, serve dare fiducia ai propri uomini e serve dare loro del tempo per raccogliere i frutti del lavoro, perché dall'oggi al domani, in F1, non è possibile cambiare nessun tipo di situazione. In poche parole, l'iride tornerà a Maranello quando si capirà che, più che gli uomini, è necessario cambiare mentalità.

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Foto media.ferrari.com; Foto Twitter Ferrari

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